Generazione Covid

Sarà anche solo una nuova semplificazione giornalistica, un neologismo per formulare titoli a effetto e far di tutta l’erba un fascio.
Certo è che la pandemia con i lockdown prolungati, le vite confinate nelle zone a colori, le scuole superiori e le palestre chiuse da mesi, la didattica a distanza e l’iperconnessione al Web ha messo a dura prova i nostri giovani, bambini e adolescenti.
Perché se a una certa età chiudersi in casa può risultare rassicurante, per un essere umano in transizione il relazionarsi con l’altro, scoprire nuovi luoghi, provare esperienze inedite è assolutamente vitale, come ci raccontano tutti i romanzi di formazione degli ultimi tre secoli di letteratura.
La preoccupazione non è solo legata all’attualità, ma anche e soprattutto a quella lacuna incolmabile che tutto questo potrebbe causare nello sviluppo della personalità di donne e uomini di domani, costretti a fare i conti con una serie di opportunità perse, di nozioni apprese a scacchiera, di esperienze mancate e non più recuperabili.
Buchi emotivi, relazionali e formativi che potrebbero segnare irreparabilmente, compromettendola, un’intera generazione.
Ma davvero è così? O piuttosto è la stessa definizione a rischiare di edificare, attraverso la forza indiscussa della narrazione giornalistica, un nuovo pregiudizio sugli adulti e i genitori di domani?
Prima li abbiamo definiti fannulloni, poi mammoni, poi bamboccioni.
Gli sdraiati, quelli senza ideali, i figli della morte delle ideologie, i millennials, i nativi digitali, gli iperconnessi, la generazione Z, la generazione Covid.
Eppure eccoli qua, con i loro volti puliti, capelli ribelli, occhi vivaci,
slogan e proteste.
Le loro mobilitazioni di piazza parlano di futuro, non tanto diversamente da come ne parlavamo noi alla loro età.
Certo l’emergenza pandemica ha portato a un’interruzione dei loro ritmi, una destabilizzazione che non necessariamente però ha a che fare con il disagio psichiatrico.
Anzi, è parte stessa di tutti quei mutamenti e quelle trasformazioni e di processi tipici di quell’età, terribile e meravigliosa, che è l’adolescenza: quello dell’appartenenza, del riconoscimento, del confronto e dello scontro. Quello della relazione con l’alterità, la cui privilegiata palestra di alfabetizzazione emotiva è proprio lei, la Scuola.
Quello della costruzione della propria identità – civile, politica, filosofica, sessuale.
Tutto questo non può e non deve avvenire di fronte a uno schermo luminoso.
Ma questi ragazzi dimostrano ancora una volta di essere parte attiva della società, di provare un desiderio forte di gridare la loro sofferenza, il loro bisogno, di non essersi rassegnati, di non accontentarsi.
Chiedono di non dipingerli così: loro non sono la generazione Covid.
E allora anche noi adulti in casa non rinunciamo al diritto alla disconnessione, a creare momenti e spazi dedicati all’incontro, all’ascolto, alla presenza fisica, a quel guardarsi negli occhi che intercetta, comprende, accoglie.
A partire dai pasti condivisi, dai commenti dei notiziari, dalle domande sui loro progetti.
Siamo parola e siamo pensiero, prima di tutto.
Non dimentichiamo che è questo che ci contraddistingue dal resto del mondo animale. Contatto fisico e vicinanza torneranno, prima o poi.
Questa è una certezza.
Ma ora è tempo di affrontare e superare le difficoltà, di reagire e guardare al futuro.
La generazione Covid ce lo sta chiedendo, mostrandoci anche, scendendo in piazza sotto il cielo invernale delle nostre città, la via.